Il Principio del libero convincimento del Giudice

Il processo civile tende ad accertare, attraverso il contraddittorio delle parti e la loro attività assertiva e probatoria, la c.d. “verità processuale”.

Quella umanamente accertabile non è infatti una verità sostanziale e assoluta, bensì una verità formale e relativa, che si forma a poco, a poco, fino a fissarsi nella sentenza e infine a cristallizzarsi nel “giudicato”.

I fatti che ciascuna parte pone a fondamento del diritto fatto valere in giudizio, e quindi della propria tesi, devono essere provati.

Nell’accertamento della verità processuale un ruolo di fondamentale importanza viene svolto dall’attività, riservata al giudice, di ammissione e valutazione del materiale probatorio offerto dalle parti.

In passato, e fino alla seconda metà del XVIII secolo nei sistemi processuali di “civil law” il tema della ammissione e valutazione delle prove era dominato dalle “prove legali”, ovvero da regole giuridiche, tratte da massime d’esperienza, sulla loro attendibilità in astratto.

La prova legale, che si contrappone alla prova libera, è valutata nella sua attendibilità, in via preventiva del legislatore e non lascia al giudice alcune discrezionalità.

Per esempio dalla massima di esperienza secondo la quale, normalmente, una persona non mente quando afferma fatti contrari al proprio interesse, si è tratto la regola giuridica secondo la quale le dichiarazioni a sè sfavorevoli effettuate da una parte, in sede di interrogatorio formale, devono considerarsi vere e formano piena prova, senza che al giudice sia consentito sostenere il contrario.

I sistemi di “common law” non conoscono le prove legali e quindi tutte le prove vengono valutate liberamente dal giudice o dalla giuria.

Anche nell’europa continentale, dopo la rivoluzione francese e con l’istituzione di giudici professionali, si è progressivamente abbandonato il sistema delle prove legali.

Tuttavia, il nostro ordinamento conserva tutt’ora norme che prevedono prove legali quali il giuramento (art. 2738 c.c.), la confessione (artt. 2733 e 2735 c.c.), l’atto pubblico (art. 2670 c.c.), la scrittura privata (artt. 2702, 2715, 2716 e 2719 c.c.).

Ma il principio cardine ormai adottato anche in Italia è quello della valutazione delle prove rimesso alla discrezionalità del giudice (principio del libero convincimento), contenuto nell’art. 116 del codice di procedura civile, il cui significato più ovvio consiste, appunto, nell’inesistenza di norme che predeterminano l’efficacia della prova.

L’ammissione delle prove è dunque normalmente libera per il giudice e deve essere ispirata al criterio della maggiore utilità per l’accertamento dei fatti di causa, salvo il rispetto di specifiche norme che prevedono invece l’inammissibilità della prova in certe circostanze (vedi ad esempio artt. 2721 e ss c.c.).

Inoltre il giudice è libero di scegliere gli elementi di prova su cui fondare il proprio convincimento e quindi la propria decisione, all’interno del materiale probatorio acquisito nel processo.

Ciò significa, secondo la giurisprudenza prevalente, che il giudice non è affatto obbligato a dar conto in sentenza di ogni singolo elemento di prova acquisito, ma può mettere in rilievo solo quelle prove che ritiene più significative, e quindi prevalenti, trascurando quelle che non ritiene utili o attendibili, purchè si inseriscano in un ragionamento logico e immune da vizi.

Sotto altro aspetto si sostiene in giurisprudenza come il giudice sia libero di non ammettere ulteriori mezzi di prova, e anzi di revocare l’assunzione di mezzi di prova già ammessi, quando siano divenuti superflui a seguito di elementi già acquisiti (art. 209 c.p.c.) o quando ritenga di disporre sufficienti elementi di valutazione.

La questione centrale è “come” il giudice utilizza il suo prudente apprezzamento circa la prova dei fatti di causa, affinché il principio del libero convincimento non si traduca in valutazione arbitraria, svincolata da ogni criterio di ragionevolezza, coerenza e correttezza.

Si tratta, senza dubbio, di una valutazione non vincolata, ma proprio per questo si rende necessario un controllo sulla razionalità delle argomentazioni logiche che la sostengono.

Tale controllo viene compiuto in sede di esame della motivazione della sentenza.

Il giudice inoltre, deve rispettare due principi fondamentali del processo: il principio del contraddittorio e il diritto alla prova.

In base al principio del contraddittorio le parti devono essere messe in grado di dedurre e controdedurre sui mezzi di prova, di essere presenti all’assunzione dei medesimi e di svolgere deduzioni e controdeduzioni circa l’esito delle prove, prima che sia emessa la sentenza.

Il diritto alla prova, comporta che le parti abbiano il diritto di difendersi provando, ovverosia, abbiano il diritto di far assumere tutte le prove ammissibili e rilevanti e, successivamente, di far valutare dal giudice tutto il materiale probatorio acquisito in giudizio.

Vi sono ovviamente casi in cui viene fatto un cattivo uso o un abuso del libero convincimento.

Sono innanzitutto i casi di “valutazione misteriosa” in cui il giudice non esplicita le ragioni giustificative delle sue valutazioni sulle prove.

Altro caso di abuso è costituito dalla “valutazione unilaterale” che si verifica quando il giudice fa riferimento, in motivazione, solo agli elementi di prova che sorreggono il proprio convincimento, senza occuparsi delle prove di segno contrario e senza spiegare la ragione per la quale le ritiene inattendibili.

Vi sono poi i casi di “inversione del giudizio“, che si verificano allorquando il giudice sceglie una versione dei fatti e poi cita soltanto le prove che confermano tale versione, senza compiere prima una valutazione complessiva del materiale probatorio.

Infine si verificano casi di “sopravalutazione della prova“, allorché il giudice fa derivare da parte o anche da tutto il materiale acquisito  conseguenze giuridiche non giustificate e comunque sproporzionate rispetto alla base conoscitiva fornita dalle prove stesse. Ciò si può verificare quando il giudice utilizza un materiale probatorio scarso e ritiene di poterlo integrare con presunzioni semplici o con argomenti di prova.

La questione è complicata dal fatto che spesso il giudice non spiega, in motivazione, in modo puntuale e completo, perché ha ritenuto attendibile una determinata prova, su cui poi fonda la propria ricostruzione del fatto.

L’orientamento prevalente della Suprema Corte è nel senso di non ritenere assolutamente necessaria una giustificazione analitica e completa sulla attendibilità e credibilità di ciascuna prova; ritenendo invece sufficiente che il giudice compia, dandone conto in sentenza, una valutazione complessiva.

Il controllo della correttezza del processo logico seguito dal giudice per giungere alla decisione è dunque l’unico contrappeso possibile al libero convincimento del giudice.

A tal proposito è necessario che il giudice giustifichi analiticamente, l’attendibilità e la rilevanza di ciascuna prova in relazione al relativo fatto che essa intende dimostrare.

Se poi un fatto è oggetto di più prove, anche contrastanti tra loro, il giudizio dovrà essere complessivo, e il giudice dovrà motivare sulle ragioni per le quali abbia ritenuto prevalente una prova rispetto ad altre, valendosi del criterio di probabilità logica prevalente.

Carlo Poli

Note bibliografiche

MANDRIOLI, Diritto Processuale Civile, I, G. Giappichelli Editore, 2007, pagg. 108-116.
MANDRIOLI, Diritto Processuale Civile, II, G. Giappichelli Editore, 2007, pagg. 174-185.
PROTO PISANI Lezioni di diritto Processuale Civile, Terza Edizione, Jovenne Editore Napoli 1999, pagg. 441- 447.
TARUFFO, La valutazione della prova. Prova libera e prova legale. Prove e argomenti di prova.
SASSANI, Legittimità, “nomofilachia” e motivazione della sentenza: l’incontrollabilità in cassazione del ragionamento del giudice.

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